Tosi: “Il getto? L’hanno inventato le zitelle”. Documenti d’archivio messi a disposizione dalla Diocesi

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FANO – Il getto? L’hanno inventato le zitelle! O almeno così è lecito supporre sulla base di documenti d’archivio emersi di recente. Ma prima di parlarne vanno fatte due premesse.

La prima a proposito delle “zitelle”; con questo termine, che oggi ha assunto un significato abbastanza diverso dall’originale, fino all’Ottocento venivano indicate le ragazze da marito; in un manifesto del 1874 ne viene anche indicata approssimativamente l’età, “non minore di 15 anni, ne maggiore di 21“.

L’altra riguarda il getto, cioè il lancio sulla folla di quintali di dolciumi: caramelle, tavolette e praline di cioccolata, bob bon e tanto altro; oggi, per evidenti motivi di igiene e sicurezza, non ci sono più i confetti che fino a metà Novecento, spesso finti, erano lanciati come proiettili; ma lo “scherzo” era poco piacevole per chi lo subiva; nel Settecento addirittura la strada ne “biancheggiava”; ancor prima, nel Cinquecento, insieme a miele, biscottini e “ranciate”, non venivano lanciati sulla folla ma di sicuro addolcivano le feste di Carnevale date “in Corte”.

Ma, quando è nato il getto? E chi l’ha “inventato”?

Probabilmente tutto è cominciato tre secoli fa ad opera delle “zitelle” fanesi che per le loro rivendicazioni coraggiose, ma troppo in anticipo sui tempi, possono essere considerate vere e proprie “femministe ante litteram”. Con una differenza sostanziosa rispetto alle loro “colleghe” di oggi (evidentemente quelle del mondo occidentale) che stanno gradualmente sgretolando un “muro” di arretratezza culturale: per loro, dipendenti prima dal padre, poi dal marito, in più dal Parroco e dal Vescovo, in caso di disobbedienza erano previste anche severissime pene corporali come le frustate.

Per comprendere il contesto della vicenda occorre fare qualche passo indietro nella Grande Storia.

Finita la dominazione dei Malatesta (seconda metà del Quattrocento) Fano entra a far parte dello Stato della Chiesa ed è soggetta ad un Vescovo che a sua volta risponde ad un Governatore. Nel 1517 scoppia la Riforma protestante che fa proseliti in tutta Europa; l’argine difensivo viene organizzato nel Concilio di Trento (1545 – 1563) che dà avvio alla cosiddetta Controriforma che cerca di porre rimedio ai guasti secolari, molti di tipo morale, della Chiesa di Roma.

Ovviamente, a incappare nelle maglie dell’occhiuto controllo ecclesiastico sarà stata soprattutto una festa particolarmente licenziosa e trasgressiva come il Carnevale, e in effetti, a partire dalla seconda metà del Cinquecento e per tutto il secolo successivo, sono numerosi i provvedimenti che impongono prescrizioni e pene severe in ambito non solo religioso ma anche civile.

I “tempi di trasmissione” non sono quelli di oggi e ci vogliono decenni prima che il nuovo ordine entri a regime.

Ecco forse il motivo per cui, soprattutto nel Seicento, il Carnevale appare molto ridimensionato rispetto ai secoli precedenti e la sua celebrazione, almeno a quanto finora risulta, si limita a feste private, a rappresentazioni teatrali riservate ai nobili e poco altro; insomma, è sostanzialmente un riferimento temporale.

A peggiorare le cose c’è il flagello della peste segnalata in varie parti d’Europa e del Mediterraneo; per fortuna Fano, non a caso città della Fortuna, viene risparmiata grazie alle precauzione prese per impedire il contagio: sentinelle lungo il mare e alle porte di accesso e soprattutto niente contatti con persone prive di garanzie di sanità.

Ma evidentemente nella memoria collettiva qualcosa dell’antico Carnevale era rimasta; attenuatesi gradualmente le motivazioni di ordine religioso e sanitario che per generazioni avevano contrastato la voglia di “insanire”, a inizio Settecento, per la precisione nel 1711, scatta qualcosa che il Vescovo dell’epoca, Monsignor Giberti, registra puntualmente nelle missive con cui chiede aiuto prima al suo diretto superiore, il Governatore, e poi a Roma: diversamente da quanto succede altrove, dove la situazione è abbastanza tranquilla, a Fano i giovani mostrano segni di insofferenza; hanno il coraggio di dire che loro non sono obbligati all’obbedienza perché sono secolari” e quindi non “sudditi” del Vescovo; rivendicano il diritto di divertirsi perché era “necessario di dar qualche sfogo e ricreazione alla gioventù e specialmente alle zitelle che stanno tutto l’anno in casa”. Una “ricreazione” nuova era difficile da accettare da parte dei custodi dell’ordine e delle tradizioni: infatti, da un paio d’anni erano stati introdotti “certi balli (chiamati volgarmente all’Inglese) in cui gli Huomini si abbracciano con le Donne”! Evidentemente questa promiscuità era scandalosa per l’epoca ma oggettivamente era anche foriera di gravi conseguenze, come vedremo più avanti.

Ma c’è di più, perché le “zitelle”, almeno a Carnevale, non vogliono dipendere passivamente dal padre, dal parroco o dal Vescovo; addirittura, in cinquanta o sessanta decidono di allestire “una bella e sontuosa mascherata … e senza mascara ancora, e con Carri, Musici, istromenti e huomini ancora framischiati con le dette zitelle in officio di mazzieri, schiavi neri, e bianchi”! Lo fanno per divertirsi, come del resto facevano anche i nobili con ben altri mezzi a disposizione; ma le birichine approfittano dell’occasione per un altro scopo: vogliono essere “corteggiate, incontrate, appostate”. Come? “col tirar confetti à chi lor piace”! Per questo non indossano, o usano le maschere in modo tale da essere riconosciute. E’ il comportamento un po’ sfrontato, ma nello stesso tempo anche ingenuo di giovinette che si affacciano alla vita adulta.

Il dato più importante però è questo: per la prima volta in tempo di Carnevale compare un “getto” di dolciumi, i confetti, assimilabile a quello che ancora oggi si effettua durante le sfilate.

Dalla stessa fonte emerge un altro dato molto rilevante: nella citata mascherata, le “zitelle” si servono di “Carri”, evidentemente gli stessi utilizzati per le necessità quotidiane ma usati in modo da essere funzionali ad una manifestazione carnevalesca; insomma, potrebbero essere questi i progenitori dei maestosi carri allegorici che sfilano ai giorni nostri.

Come va a finire la storia? Molto probabilmente male! Le fonti non lo dicono perché mancano testimonianze dirette. Ma, è credibile che dei giovani, soprattutto donne, abbiano potuto impunemente disobbedire ad un potere fortissimo, contemporaneamente politico e religioso?

E in effetti, pochi anni dopo, la situazione a Fano appare “normalizzata”.

A documentarlo è lo stesso Vescovo che aveva segnalato a suo tempo le ottime ragioni che gli consigliavano di evitare gli “scandali” e le nefaste conseguenze di una incontrollata libertà dei costumi: scrive infatti che negli ospedali della città era “cresciuto più di tre volte del solito il numero de Proietti”, cioè dei neonati abbandonati e, cosa ancora più terribile, non ci si faceva scrupolo di provvedere al “soffogare delle creature”. “Ovviamente”, secondo la mentalità dell’epoca, “Tutto effetto, come universalmente si dice, delle donne e zitelle mascarate”, come se non ci fosse il contributo determinante di tanti giovanotti.

Da questa vicenda emergono alcuni elementi incontrovertibili:

– ben tre secoli fa, in tempo di Carnevale, per le strade di Fano venivano lanciati i confetti;

– a farlo erano delle “zitelle” coraggiose che sfidavano l’autorità costituita;

– il gesto era compiuto da ragazze che prendevano l’iniziativa nei confronti dei possibili pretendenti.

E’ bello allora pensare che all’origine del lancio dei dolciumi, l’elemento più caratteristico ed originale del Carnevale di Fano, ci siano gli sguardi e i sorrisi di ragazze innamorate.

Del resto, carta canta. Parola di Vescovo!

Enrico Tosi

Gennaio 2016

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