“Eravamo preoccupati di evitare lo ‘spezzatino’ per Saipem, per le possibili ripercussioni sui livelli occupazionali, e adesso ci annunciano una macelleria”. Duro il commento dell’on. Lara Ricciatti (Sel) all’annuncio di Saipem di un piano esuberi di 8.800 lavoratori entro il 2017, per far fronte alla difficile situazione economica, emersa ieri dai dati del primo semestre 2015.
Stefano Cao, da tre mesi alla guida di Saipem, ha commentato i dati parlando di uno scenario di mercato “profondamente deteriorato” a causa del calo del prezzo del petrolio, che ha inciso sull’azienda con una perdita di 929 milioni di euro e l’aumento di circa un miliardo dell’esposizione debitoria nei primi sei mesi dell’anno.
Una doccia fredda che arriva, peraltro, dopo le rassicurazioni dello scorso 7 luglio del ministro dello Sviluppo economico Guidi “sull’obiettivo del mantenimento dei livelli occupazionali di fronte a una cessione di ramo di azienda alla Syndial del settore Risanamento Ambientale Business Line Enr”.
“Un annuncio che lascia senza parole – afferma Ricciatti -, sia per la portata degli esuberi sia per la modalità con il quale è stato presentato, come se 8.800 posti di lavoro fossero una semplice voce di bilancio da depennare, senza chiarire quali stabilimenti e territori saranno toccati. Per questo – aggiunge – il primo passo è innanzitutto avere maggiori informazioni. Ho depositato oggi stesso una interrogazione parlamentare rivolta ai ministri dello Sviluppo economico e dell’Economia (azionista di maggioranza di Eni, che controlla Saipem, ndr) per chiedere chiarimenti e per sapere, nello specifico, se gli esuberi riguarderanno anche la sede Saipem di Fano”.
“Oltre alla difesa dei livelli occupazionali sui territori è necessario, però, affrontare la questione anche sul piano della politica industriale del Paese. Pare una assurdità che l’obiettivo del risanamento dei conti di Saipem, con un prezzo così alto da pagare in termini di occupazione, sia esclusivamente finalizzato alla sua vendita e non ad un suo rilancio. Abbiamo avuto sin troppi esempi di riorganizzazioni aziendali addebitate ai lavoratori, ai territori e allo Stato in termini di costi sociali, che hanno però garantito consistenti profitti ad azionisti e manager”.