FANO – È marchigiano e, per la precisione fanese, l’attore che interpreterà Bassiano nel nuovo spettacolo evento “TITUS – Why don’t you stop the show?” adattamento del Tito Andronico di Shakespeare a cura di Davide Sacco, uno dei registi e drammaturghi più attivi e innovativi del panorama italiano, recentemente candidato al Premio Le Maschere del Teatro Italiano.
Il giovane attore fanese Enrico Spelta sarà in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 12 ottobre con Francesco Montanari e con Marianella Bargilli, Guglielmo Poggi, Ivan Olivieri, Beatrice Coppolino, Claudia Grassi, Jacopo Riccardi, Giuliano Bruzzese, Filippo Rusconi, Matilde Pettazzoni.
Attore, formatore e organizzatore teatrale: Enrico Spelta, formatosi sul Metodo Mimico di Orazio Costa, si perfeziona alle Officine Quirino, Scuola d’arte drammatica del Teatro Quirino, sotto la guida di Guglielmo Ferro, fonda la compagnia teatrale EXNOVO, la prima realtà professionale con sede a Fano, con la quale porta avanti progetti in rete con enti nazionali e regionali. Ha lavorato, tra gli altri, con Mariano Rigillo, Ettore Bassi, Leonardo Petrillo, Carlo Simoni e Liv Ferracchiati in importanti produzioni.
Un debutto assoluto che non si limita a calcare il palcoscenico, ma invade la platea, trasformando lo spazio in un’esperienza immersiva. Mettere in scena il Tito oggi ci ricorda un’amara realtà: ci si abitua a tutto, perfino alla violenza, alle barbarie, e sembra che la violenza successiva sia sempre meno peggiore della precedente, perché è la violenza stessa che educa i nostri occhi a non sviare lo sguardo e la nostra morale a sprofondare in quel buco nero del “è giusto così”.
Parliamo di una Roma antica, chiaramente, di un popolo germanico e di regine e tribuni, di imperatori e soldati. Ma parliamo di stupri efferati, di umiliazioni e torture, di quel senso mostruoso di normalizzazione, quel sordo stridulo suono che ovatta ogni grido di donna e di madre. Un bambino giace sulla pancia del proprio padre, una donna viene stuprata nel corpo e nell’anima come bottino di guerra, un figlio morto per ogni proprio figlio caduto.
Un codice così lontano, ma così mostruosamente vicino, così mostruosamente abituale.
E allora il Tito va raccontato, va messo in scena, sperando che almeno in quella strana architettura del teatro qualcuno possa gridare basta e indignarsi, perché questo è il limite più grande del nostro tempo: non ci indigniamo più davanti all’orrore e alle brutture del mondo. La violenza è un modo di essere.
E c’è una soglia nel cuore
dell’animo umano in cui
nulla ha più senso,
nulla è più giustificato,
e la ragione cade in pasto
alla bestialità degli orrori.